La rappresentazione dell'immagine di Gesù nel cinema
Peio Sánchez
La persona di Gesù nell’estratto di all’incirca 35 film è stata il nuovo tema di pastorale giovanile presentato dal prof. Peio Sánchez ai partecipanti al Forum “Giovani, religiosità e Vangelo”, organizzato dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose Don Bosco, di Barcellona
Una constatazione è ormai certa: i giovani vedono quotidianamente una media di quasi due film (sia alla TV che al cinema, in video e in DVD) e l’immagine che essi hanno della realtà è profondamente segnata da questa esperienza. Molto più condizionante dell’influsso che su di essi esercita la lettura. Perciò a noi educatori ci preoccupa la presenza dell’elemento religioso e spirituale nel cinema. E, dentro questi temi, certamente, interessa l’immagine di Gesù che essi possono ricevere attraverso questo mezzo altamente comunicativo.
I film su Gesù sono stati l’esponente classico del cinema religioso cristiano, ma essi non sono, assolutamente, il solo modo di riferimento a Gesù nella storia del cinema, né, certamente, della presenza dell’elemento spirituale nella cinematografia.
Influenza del cinema nella formazione religiosa
Il conferenziere, laureato in Teologia e Pedagogia e professore dell’ISCR Don Bosco che si muove negli ambiti della pastorale giovanile, ha messo in risalto che le rappresentazioni di Gesù nel cinema hanno avuto forte influenza sulla formazione popolare dell’immagine di Gesù di Nazaret. I film spettacolo, come Re di re (1961) di Nicholas Ray e La più grande storia mai raccontata (1965) di Georges Stevens hanno seriamente deformato l’immagine di Gesù. E, nell’estremo opposto, L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Scorsese presenta un Gesù interiormente complesso, e quel che comincia coll’essere una buona intenzione nella esplorazione della coscienza umana di Gesù finisce in un personaggio torturato dal suo Dio. Un tentativo fallito. E neanche Gesù Cristo Superstar (1974) di Jewison l’azzecca. Non appaiono né come profezia del Regno, né come novità di rapporto con il Padre, né come servizio di dedizione ai fratelli. Il finale rimane così simbolico da diventare impercettibile.
Il film Gesù di Nazaret (1977) di Zeffirelli, che ha avuto successo e diffusione, migliora sostanzialmente la vicinanza al vangelo, ma neanche esso convince totalmente. Scompaiono molti elementi centrali, ad esempio, le tentazioni, la trasfigurazione e la sofferenza nella passione. È un film didattico e per tutti i pubblici, ma nasconde l’aspetto drammatico; tutto rimane troppo superficiale e semplice, con poca forza spirituale.
Due opzioni più azzeccate
Due opzioni si sono dimostrate le più azzeccate. I film che, con mezzi semplici, hanno cercato la fedeltà storica e hanno tentato di attenersi agli stessi testi evangelici (Il Vangelo secondo san Matteo [1964] di Pier Paolo Pasolini). E quei film che non hanno preteso di ricostruire la vita di Gesù, ma che ne hanno mostrato la presenza in altri personaggi (il semplice Godspell [1973] di Green e quello più complesso Gesù di Montréal [1989] di Denys Arcand. In quello primo bisogna riconoscere il valore della fedeltà al vangelo e la capacità simbolica; in quello secondo, la trasposizione al tempo odierno.
Speriamo che Passion (2004) di Mel Gibson sia un apporto positivo. “Non credo che altri film siano riusciti a penetrare nella vera forza di questa storia. O sono inesatti nel racconto storico, o hanno cattiva musica, o sono di cattivo gusto. Questo film mostrerà la passione di Gesù Cristo così come essa avvenne. È come ritornare nel tempo e contemplare quei fatti, presentati esattamente così come essi sono avvenuti ... Voglio mostrare l’essenza del sacrificio” (Zenit, 6 marzo 2003).
Le “metafore” di Gesù
Diventa molto interessante la linea esplorativa delle metafore di Gesù. Abbiamo percorso personaggi vari che ci mostrano il Cristo nelle storie di persone molto diverse.
I testimoni di Dio ci hanno presentato personaggi che, con la loro vita, mostravano le opzioni di Gesù (Romero [1989] di John Duigan), essendo solidali con quei che lottano per la giustizia e la libertà (Roma, città aperta [1945] di Roberto Rossellini) e partecipando al compito di riconciliazione (I miserabili [1998] di Bille August).
Abbiamo anche riconosciuto in alcuni “pazzi” i tratti di Cristo. Così, la pazzia di Francesco, giullare di Dio (1950) che disarma i potenti; la pazzia per la bellezza in mezzo alla desolazione di Andrei Rublev (1966) di Tarkovski e la pazzia per l’impossibile di Ordet (1955) di Dreyer.
Tra le parabole del Cristo hanno un posto particolare i film che ce lo presentano come donna. Così Il festino di Babette (1987) di Axel, Le notti di Cabiria (1956) di Fellini e Chocolat (2000) di Lasse Hallström.
La scienza-finzione è un genere favorevole alla presenza dell’elemento spirituale. Così si deduce dall’analisi sulla figura di Cristo presso Blade Runner (1982) di Ridley Scot, il tentativo manipolatore dei Fratelli Wachowski nella saga di Matrix (2000-2003) e l’interessante Edoardo Maniforbici (1990) di Tim Barton.
Le storie di dedizione per la redenzione di altri ci parlano anche della presenza di Cristo. Così possiamo vederlo nel torturato Tenente corrotto (192) di Abel Ferrara e nel film La Strada (1955) di Fellini, dove la morte di Gelsomina redime il male di Zampanò.
Infine, nella conferenza è stata riconosciuta la presenza del volto di Cristo nei piccoli. I semplici sono capaci di rendere possibile lo straordinario in Miracolo a Milano (1950) di Vittorio De Sica: un bambino assume il ruolo di Cristo arrivando sino alla dedizione in Figli di uno stesso Dio (2001) di Yurek Bogayevicz. O scendendo ancora un gradino nella scala dell’umiltà: un asino rappresenta la sofferenza silenziosa di Cristo nel mondo in Au Hazard Balthasar (1966) di Bresson.
Una presenza di Gesù molto più abbondante
Tutte queste tracce ci consentono di riconoscere la presenza di Gesù Cristo nel cinema in un modo molto più abbondante e profondo di quel che indicava una prima impressione. Tuttavia, ci ha anche invitati a un dialogo con il cinema molto più profondo di quel che di norma si fa.
Ci si apre così una linea di lavoro educativo ed evangelizzante con i giovani che può far sorgere degli interrogativi e delle ricerche che la semplice visione passiva non facilita. Occorre suscitare uno sguardo capace di profondità per vedere la verità dei racconti e delle metafore del cinema; e bisogna anche passare dall’esperienza virtuale ad una esperienza reale di costruzione della fede.
Fonte: www.vidimusdominus.com
29.03.04
Gesu' sullo schermo
di Ernesto G. Laura
Dei molti film realizzati in un secolo di
cinema su Gesù, alcuni appaiono invecchiati per linguaggio e per tipo di
lettura biblica, altri (come il muto italiano Christus di Giulio Antamoro dl
1916 o il francese Golgotha di Julien Duvivier del 1934) sono irreperibili. Se
dunque vogliamo inserirci nella celebrazione del Giubileo con proiezioni sul
Vangelo dovremo fare di necessità virtù e tenerci a quanto è in concreto
rintracciabile. Terremo conto comunque non solo della disponibilità su
pellicola - sempre più ardua terminato il (sempre più breve) ciclo di
sfruttamento - ma anche di quella in videocassetta.
Due proposte si presentano come immediate, il
recente I giardini dell'Eden di Alessandro D'Alatri e il Gesù di Nazareth di
Franco Zeffirelli (l'edizione cinematografica di quest'ultimo, acquistabile in
videocassetta, è naturalmente molto più breve di quella a puntate trasmessa in
televisione lunga circa otto ore).
Zeffirelli - autorevole regista di teatro e di
opere liriche che nel cinema ha firmato fra l'altro le versioni filmiche di
capolavori shakespeariani come La bisbetica domata, 1967, Romeo e Giulietta,
1968, Amleto, 1990 - mette a frutto la sua lunga esperienza di uomo di
spettacolo per una esposizione piana dei fatti evangelici, rappresentandoli
secondo le linee più care alla tradizione e dunque alla iconografia popolare e
servendosi anche in parti minime di acclamate "stars" del cinema
internazionale. Con D'Alatri, esponente di una più giovane e nuova generazione
di registi italiani, si parla invece del Cristo con il linguaggio dell'uomo di
oggi che da un mondo secolarizzato e "distratto" risale verso le fonti
- utilizzando nel caso anche i vangeli apocrifi o liberamente inventando - e
recupera il mistero dell'Incarnazione in modo suggestivo e vivace: si vedano le
sequenze sul Gesù giovane prima dell'"uscita pubblica" o il
bellissimo episodio della tentazione nel deserto.
Risalendo più indietro rimane sempre
essenziale il Vangelo secondo Matteo diretto nel 1964 da Pier Paolo Pasolini,
vincitore fra l'altro del premio dell'O.C.I.C. (Office Catholique International
du Cinéma) alla Mostra di Venezia di quell'anno. Il poeta - che si dichiarava
non credente - si accosta con grande rispetto al testo dell'evangelista, che
traspone sullo schermo con piena fedeltà, ambientandolo suggestivamente in una
cornice pastorale-contadina fuori di un tempo storico preciso non senza richiami
alla grande pittura. Egli è soprattutto interessato alla perentorietà della
predicazione di Gesù, all'invito che egli fa a seguirlo al di là di ogni
calcolo personale, di ogni egoismo. Non a caso sceglie dei quattro Vangeli
quello di Matteo che si può considerare il più "duro". Rispetto ad
altri film cristologici che privilegiano l'aneddotica, preoccupazione costante
di Pasolini è invece mettere al centro, con tutta la sua forza morale e
spirituale, la parola di Gesù.
Discontinuo appare invece Il Messia con cui
uno dei Maestri del nostro cinema, Roberto Rossellini, concluse nel 1975 la sua
carriera. Nei confronti della fede il regista fece lungo gli anni dichiarazioni
contraddittorie, finendo da ultimo per confessarsi ateo. E tuttavia l'intera sua
opera è attraversata dal tema della fede tramite il "vissuto" di
uomini di fede: il cappellano militare di L'uomo della Croce (1943), il parroco
di Roma città aperta (1945), i frati di Paisà (1946), il Santo assisano di
Francesco giullare di Dio (1950), la martire santa di Giovanna d'Arco al rogo
(1954), per non parlare di drammi della coscienza come Stromboli terra di Dio
(1950) e Europa '51 (1952). Il Messia rispetto ai suoi capolavori segna però un
passo indietro: accanto a momenti felici e inediti (la Madonna che collabora
alla predicazione del figlio insegnando ai bambini) ci sono intere sequenze
"tirate via" con approssimazione come quella ambientata nella reggia
di Erode.
Più attenti alle esigenze industriali del
grande spettacolo popolare che non ai valori profondi del Nuovo Testamento
risultano perlopiù i film hollywoodiani. Meritano comunque positiva attenzione
almeno due opere, Il Re dei Re (King of Kings, 1961) di Nicholas Ray, che punta
sulla attualità del messaggio del Cristo, e La più grande storia mai
raccontata (The Greatest Story Ever Told, 1965) di George Stevens, non derivato
direttamente dai Vangeli ma da un romanzo americano di Fulton Oursler da essi
ispirato. Severamente accolto dalla critica statunitense, non è meritevole di
giudizi tanto negativi: esso presenta diverse libertà rispetto ai testi biblici
ma è loro fedele nella sostanza. Soprattutto si distingue per l'interpretazione
carismatica dello svedese Max von Sydow, forse il migliore attore mai calatosi
nella figura di Gesù. Meglio lasciar perdere invece L'ultima tentazione di
Cristo (The Last Temptation of Christ, 1987) di Martin Scorsese tratto dal
romanzo del greco ortodosso Nikos Kazantzakis. L'idea di partenza era
interessante e intrinsecamente legata al mistero di Gesù in cui si incontrano
persona divina e natura umana: quella di seguirne l'ipotetico itinerario di
conquista della piena consapevolezza della propria divinità a partire dalla sua
natura umana. Ma ci sarebbe voluta altra forza immaginativa e altra profondità
di lettura, mentre il film, come il romanzo, non si libera da una accesa
sensualità che ne falsa il centro e in più aggiunge note superficiali di
attualizzazione (i discepoli che parlano in americano popolare di oggi).
Accanto ai film sopra indicati si deve
ricordare il "musical" Jesus Christ Superstar (id., 1973) che il
regista canadese Norman Jewison trae dall'omonima "opera rock" inglese
di Webber e Rice. Ripensata nel passaggio dal palcoscenico allo schermo, l'opera
non costituisce un diretto adattamento cinematografico del Nuovo Testamento
quanto la sua rappresentazione da parte di una "troupe" di giovani nel
deserto della Palestina a contatto con i luoghi autentici. Se non sempre la
"lettura" evangelica appare rigorosa e completa, il film trae comunque
dalla bellissima musica profonde suggestioni spirituali capaci in particolare di
attrarre il pubblico giovane alla figura di Gesù. Di un altro regista canadese,
Denys Arcand, è Jesus of Montréal (1989), interessante anche se non tutta
accettabile attualizzazione di quel Vangelo di Marco che finora sembra aver meno
stimolato i cineasti. Il giovane Daniel interpreta Gesù in una sacra
rappresentazione che le autorità ecclesiastiche rifiutano reputandola appunto
troppo attualizzata. Ma Daniel continua ad approfondire il personaggio fino a
ripercorrerne nella Montréal di oggi le varie tappe sino al sacrificio finale.
Vorrei infine segnalare due film italiani che
liberamente inventano ai margini del testo sacro storie intensamente religiose.
Il primo è L'inchiesta (1986) di Damiano Damiani, da un vecchio soggetto di
Ennio Flaiano e Suso Cecchi D'Amico che giaceva nei cassetti dal '71. E'
l'immaginaria inchiesta che il romano - e dunque pagano - Tauro effettua in
Palestina per incarico dell'Imperatore all'indomani della Resurrezione di Gesù.
I romani naturalmente non ci credono e pensano che i discepoli abbiano trafugato
e nascosto il cadavere. Molto bello l'incontro a Nazareth con Maria che, morto
il figlio, trascorre nel suo villaggio gli ultimi anni. Il secondo è I magi
randagi, ideato da Pasolini per Totò e nel 1996 rielaborato e infine realizzato
da Sergio Citti, fiaba di religiosità semplice e candida, vicenda di oggi di
tre poveracci arruolati per fare i Re Magi in un presepio vivente e che si
ritrovano a rivivere il misterioso annuncio della nascita del Bambino.
L'episodio iniziale del Nuovo Testamento, la
notte di Betlemme, è il perno ispirativo di altri due buoni film italiani,
Cammina cammina diretto da Ermanno Olmi nel 1983 in forma di storia che un
carovaniere racconta al nipotino sotto la tenda nel deserto, e Per amore solo
per amore che un regista dell'ultima leva, Giovanni Veronesi, trae nel 1993 da
un romanzo di Pasquale Festa Campanile, analizzando con delicatezza il rapporto
coniugale fra Giuseppe e Maria di fronte allo sconvolgente annuncio dell'Angelo.
(In due videocassette è anche disponibile il televisivo Un bambino di nome
Gesù di Franco Rossi, che rievoca con sincera partecipazione le vicende
d'apertura dei Vangeli dall'Annunciazione agli anni dell'infanzia).
Insegnamento della religione cattolica e
cinema
Don Dario Viganò
Docente all'Università Cattolica di Milano di "Etica
e deontologia della comunicazione"
Introduzione
Non è una novità delle nostre ultime legislature quella di introdurre nei
percorsi didattici una specifica attenzione al cinema. Pare infatti che già nel
1906, pochi anni dopo i primi vagiti della settima arte, Stefano Cremonesi
avviò l'esperienza di proiettare nelle scuole catanesi documentari di viaggi,
di usi e di costumi di paesi lontani. Sempre Cremonesi avrebbe realizzato a
Brescia nel 1909 una serie di proiezioni periodiche, una sorta di cineforum,
destinato a un migliaio di ragazzi e riguardanti pellicole morali, educative e
con soggetti di storia e di geografia.
Fu l'associazione milanese Cinema Docet, costituita nel 1912, a organizzare
questi interventi disseminati sul territorio nazionale, a darne una forma
teorica e a pubblicare la scuola dell'avvenire ossia l'istruzione e
l'educazione a mezzo del cinematografo. è chiaro che l'intento è
strumentale e non siamo ancora giunti a considerare il cinema come testo
culturale, ma è pur sempre un inizio significativo. Nonostante gli sforzi
spesso dovevano fare i conti con la scarsa attenzione del governo e con le
miserrime condizioni economiche, non mancarono persone che con determinatezza
condussero una battaglia per l'introduzione della cinematografia nei programmi
scolastici.
Umberto Paradisi, direttore artistico della Pasquali Film, stese un testo nel
1915 che così recita: «Il programma scolastico delle classi elementari
superiori è senza dubbio, di per se stesso, denso e complesso; ma la
cinematografia non intende colmare delle lacune; essa dovrebbe integrare e
rafforzare la coltura e la preparazione intellettuale della gioventù, senza
aggravi mnemonici, ma come ausilio dell'educatore e allo studioso, con un
semplicissimo corredo di mezzi e con vera genialità di metodo».
La visione puramente strumentale del cinema è comprensibile anche a partire
dall'epoca in cui tali riflessioni vanno svolgendosi, un'epoca in cui le
teoriche del cinema stavano ancora costituendosi e articolandosi. Ieri come
oggi, non mancarono feroci oppositori a tela novità nella didattica. è lo
stesso Paradisi ad informarci: «Noi temiamo purtroppo che oppositori della
cinematografia didattica siano precisamene i maestri. Oppositori non molto
facilmente placabili, poiché la loro non è opposizione di principio, fatta di
incredulità e di diffidenza, ma piuttosto una ragione d'indifferentismo
professionale».
Molti decenni si dovette attendere prima che nel nostro Paese i programmi
scolastici fossero rivisitati. È chiaro che testi di riforme sottoposti a
continue analisi e ritocchi, unitamente all'introduzione dell'autonomia che, se
da un alto apre a spazi progettuali più ampi dall'altro evidenzia la necessità
ineludibile e non procrastinabile di un sollecito ricambio, non possono che
generare una serie di macro-obiettivi senza dare precisione agli obiettivi
specifici. Li ricordiamo:
a. la promozione di un primo livello di alfabetizzazione intesa come
acquisizione critica dei linguaggi iconici;
b. il potenziamento della creatività espressiva;
c. l'accostamento ai beni culturali per incentivare la maturazione del gusto
estetico.
Questi pur generici macro-obiettivi, che facilmente incrociano le discipline che
afferiscono all'area espressiva, non eludono il problema della formazione degli
insegnanti. Un aspetto questo, tanto necessario quanto disatteso, che questo
breve intervento vuole in qualche modo mettere a tema.
L'intervento, di cui queste brevi note sono un
piccolo supporto, è distinto in due momenti.
Il primo vuole anzitutto porsi come riflessione teorica sulla modalità
di approccio al testo cinematografico. In particolare, attraverso l'analisi
storica dello sviluppo della semiotica, vorremmo approdare ad una possibile
definizione di lettura del film come testo.
Il secondo ha come obiettivo quello di mostrare, nella storia del cinema,
il rapporto complesso e fragile tra testo sacro e sua traduzione audiovisiva. In
particolare, attraverso la visione di alcuni brani cinematografici, di vorrà
giungere ad una possibile classificazione del cinema biblico, con la
consapevolezza che ogni classificazione ha il vantaggio della chiarezza, ma la
povertà del non rendere ragione di tutto.
Bibliografia essenziale:
F. CASETTI - F. DI CHIO, Analisi del film, Bompiani,
Milano 1991.
G. MICHELONE - D. VIGANO', Cinema Cinema Cinema. Dalle origini ai nostri
giorni, Milano 1995.
DARIO E. VIGANO', Il cinema delle parabole, Effatà, Torino 2000.
Dal pretesto al testo
La semiotica ha un valore strumentale e metodologico. L'esito di un
approccio semiotico al testo è duplice:
– vengo a conoscenza della struttura del testo
– apprendo le strategie discorsive
Possiamo dire che l'approccio semiotico si inserisce in una prospettiva più
ampia che è quella che chiamiamo ermeneutica.
a) Semiotiche di prima generazione (anni
50-60)
Si tratta di quegli approcci al testo che trovano nella categoria di
struttura la chiave di accesso al testo. Colui che si trova di fronte al testo
diviene sostanzialmente un decodificatore.
b) Semiotiche di seconda generazione (anni
60-80)
Sono quelle semiotiche che, abbandonando il concetto troppo statico di
struttura, ne assumono uno maggiormente dinamico che è quello di contratto. In
questo contesto il lettore diviene anzitutto un interlocutore.
c) Semiotiche di terza generazione (anni
90)
Il tema che affrontano tali semiotiche è l'interazione del testo con il suo
contesto. Attorno alla categoria del contesto il lettore viene considerato
anzitutto un partner.
Proposta di uno schema di analisi del film
Testo sacro e riscrittura cinematografica:
irriducibilità o connaturalità?
La rilevanza della riflessione sul possibile rapporto tra testo sacro e
audiovisivo è istituita anzitutto dal consumo: per molte persone infatti la
Bibbia, prima di essere un libro è anzitutto un film . A tal fine, anche per
mettere un po' d'ordine alla vasta produzione di cinema d'ispirazione biblica,
è importante far tesoro degli studi che, dall'inizio degli anni 70 hanno messo
a tema l'interesse per la forma narrativa giungendo ad istituire «un'indagine
sul valore e sulle conseguenze di una presenza massiccia del
"narrativo" all'interno dell'intero libro biblico».
La formazione, la redazione e la recezione dei testi canonici, in altre parole
riconosciuti come ispirati, è assai complessa. Tale consapevolezza ci porta ad
affermare che la Bibbia non è l'insieme materiale dei testi che la compongono.
Abbiamo infatti molto di più che l'accostamento di documenti letterari
differenti. Abbiamo la testimonianza della verità di Dio destinata ad essere
origine e custode della fede.
«La ritrovata coscienza biblica dell'idea di rivelazione come storia, dove la
manifestazione di Dio che avviene in molti modi (parole ed eventi, di carattere
individuale e collettivo), si evidenzia sempre nella catena di esperienze,
attestazioni, testimonianze, interpretazioni della coscienza credente che
formano tradizione, consente orinai di superare la schematicità naturalistica -
e l'ingenuità metafisica - di quel modello (n.d.r. ovvero del positivismo
letterario per cui un testo veniva considerato come scritto e quasi dettato da
Dio). Ma ciò appunto acuisce l'urgenza di una teoria che formuli, in modo
coerente con la stessa tradizione biblica, la ragione teologica della speciale
referenzialità di un sistema di testi che sono norma della fede perché a
differenza degli altri, possono essere riconosciuti, venerati e letti come
parola di Dio».
Per quanto attiene al nostro problema del rapporto Bibbia e cinema possiamo
affermare che «la Bibbia non è semplicemente un libro, è una
"biblioteca", una raccolta di testi, composti in epoche diverse, con
forme, destinazioni e intenti comunicativi molto diversi fra loro». Non è
possibile confondere brano omiletici con testi storici, una raccolta di massime
con dei testi normativi. La Bibbia si presenta come opera complessa, ricca e
polifonica.
Inoltre «i testi biblici sono uno sforzo comunitario e secolare di rileggere
ciò che è accaduto alla luce di un'ipotesi: l'intervento di Dio nella storia
degli uomini, nella nostra storia, nella mia storia di essere umano» .
Esistono alcuni elementi fondamentali di un progetto comunicativo biblico che
devono essere tenuto presenti nell'opera di "disboscamento" che
faremo. Gli aspetti del progetto comunicativo biblico possiamo così
riassumerli: «la sua insopprimibile polifonicità, la sua elaborazione
collettiva, il suo essere strutturalmente attualizzante e il suo spessore
narrativo».
A questo complesso e affascinante mondo biblico dobbiamo
aggiungere alcune altre considerazioni in margine ai problemi di traduzioni.
Anzitutto un breve rilievo a livello semantico. Sappiamo quanto sia difficile
passare da un testo scritto ad un altro testo scritto. Una parola non trova mai
la piena e perfetta corrispondenza in un'altra lingua. Ogni parola posta con sé
un prezioso margine di ambiguità, una carica di sfumature, rappresenta una
costellazione di senso. Pertanto anche al solo livello di traduzione di testi
scritti, tradurre significa sostituire un intero universo di senso con un mondo
di significati parzialmente sovrapponibili. Accanto al problema semantico se ne
presenta uno che possiamo definire di tipo semiotico. Esso si pone in rapporto
al progetto comunicativo inscritto nel testo stesso. Ogni testo non solo implica
un profilo del suo fruitore, ma contiene delle istruzioni d'uso per attivare dei
percorsi di lettura e di comprensione. Tradurre sign’fica pertanto ostruire un
progetto comunicativo analogo a quello originale. Da ultimo un problema si pone
a livello del contesto di fruizione, nel senso che ogni testo nasce con
particolari modalità di consumo.
Ecco che possiamo dunque avere tre livelli:
Questi problemi presenti già al livello di traduzione tra due
testi scritti si complicano quando i codici della riscrittura cambiano.
Un criterio per la comprensione critica della storia del
cinema biblico è dunque quello di superare la superficie del racconto. Infatti
da quanto abbiamo accennato, la fedeltà di superficie non è mai una condizione
sufficiente (e neppure a buon conto necessaria) per una traduzione che sia
fedele e rispettosa del testo. Non è sufficiente nel senso che possiamo avere
una gran fedeltà di superficie ma un tragico tradimento a livello di progetto
comunicativo; neppure necessaria perché possiamo al contrario avere film
apparentemente distanti a livello di intreccio dal testo sacro, ma profondamente
fedeli al progetto comunicativo.
La storia del cinema alle sue origini si presenta fortemente
intrisa di vicende bibliche.
Le origini del cinema bibl’co portano con sé quel duplice pregiudizio sotto
il quale tutto il cinema si è posto: quello della referenzialità che fa
riferimento ai fratelli Lumière e quello della ricreazione fantasiosa il cui
capostipite è Georges Méliès.
Anche i primi film, che si rifacevano alle sacre rappresentazioni della passione
di Gesù, si muovono tra questi due poli. Abbiamo così il film Vues
representant la vie et la passion de Jesus Christ (1987) che doveva essere,
secondo il carattere documentaristico della produzione Lumière, la ripresa
sullo schermo della Sacra Rappresentazione della Passione più famosa nel mondo,
quella che ogni dieci anni si celebrava a Oberammergau in Baviera. L'opera
appariva davvero complessa soprattutto per ragioni di tempo, così i nostri
produttori pensarono bene di optare per un'altra Sacra Rappresentazione, quella
che ogni anno si svolgeva a Horitz in Boemia. Ma neppure questa scelta andò a
buon fine. Ripiegarono alla fine sulla scelta di girare tutto a Parigi
spacciandola comunque ai loro agenti come il documentario sulla Passione di
Horitz.
L'altra anima del cinema, quella fantasiosa, non tardò a mostrarsi al pubblico.
Così l'anno seguente, il nostro illusionista e proprietario del teatro
Robert-Houdin, con i suoi elaborati trucchi, produce Le Christ marchant sur
les eaux, episodio evangelico di Gesù che cammina sulle acque come pretesto
per mettere a punto la capacità di Méliès di realizzare trucchi di immagine
davvero sbalorditivi.
Questa duplice modalità narrativa, quella della
ripresentazione fotostatica della realtà e quella della ricreazione fantasiosa,
non esauriscono la complessità di intrecci narrativi delle origini, ispirati
alla storia biblica. Un caso emblematico di questa differenza è Christus
(1916) un film di Giulio Antamoro. Questo regista, appartenente all'antica
nobiltà romana, chiese al poeta Fausto Salvatori di scrivergli un poema mistico
su Cristo. Il poeta dannunziano scrisse un poema in tre misteri che costituì la
base per la sceneggiatura e le didascalie. La novità e la differenza del film
non sta tanto nello stretto legame tra cineasti e letterati, quanto piuttosto
nella linea figurativa modellata sulla grande tradizione pittorica:
dall'Annunciazione del Beato Angelico alla Natività del Correggio, dai quadri
del Perugino al capolavoro di Leonardo da Vinci.
Un momento interessante per la produzione del cinema biblico è rappresentato
dalla metà degli anni Sessanta. Infatti mentre in America abbiamo la produzione
del famoso film The greatest story ever told (1965) firmato da uno dei
registi di maggiore fama della cinematografia statunitense, George Stevens, in
Italia il grande maestro Pier Paolo Pasolini gira l'anno precedente Il
Vangelo secondo Matteo e, precedentemente firma l'episodio di Ro.Go.Pa.G.
dal titolo La ricotta (1963). Proprio dal confronto di questi due modi di
fare cinema, possiamo anche scoprire differenti modi di fedeltà del testo
biblico. George Stevens è un regista con impegni anche da produttore. Necessita
di catturare il pubblico e così riflette una figura di Gesù legata ad una
"medietà" americana: Gesù non ha fratelli o sorelle per non irritare
i cattolici; riduce i miracoli per non infastidire gli agnostici; nel sinedrio
vengono utilizzati toni sfumati per evitare l'accusa di antisemitismo e, a
Lazzaro, che Steven identifica con il giovane ricco, che pone il problema della
liceità del possedere, la risposta cerca di fare un compromesso per evitare di
essere tacciato di antia-mericanismo.
Film come questo dunque tendono a cogliere solo l'aspetto superficiale
trasformando il testo sacro in un pretesto per raccontare una favola.
Assolutamente diversa è la scelta registica di Pasolini. Nell'episodio del film
collettivo firmato da Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti, si racconta la
storia di una passione. Il film, accolto come provocatorio dalla critica
cattolica, doveva aprirsi con una didascalia che denunciasse tutto il rispetto
di Pasolini per la storia sacra. Il film si presenta come un atto di accusa
contro coloro che in qualche modo si sono fatti complici dell'annacquamento
degli ideali evangelici. Più organico è il discorso pasoliniano nel Vangelo.
Pasolini non vuole fare un Gesù moderno; piuttosto ne vuole cogliere la
radicalità. Pasolini ha un atteggiamento mitizzante nei confronti di Gesù, lo
coglie come uomo prototipo in rivolta, un uomo che da scandalo. Il film,
dedicato alla cara memoria di Giovanni XXIII, è il documento più chiaro
di quanto Pasolini, uomo "non credente" fosse in realtà dominato
dall'urgenza del sacro. La scelta del testi di Matteo nasce dal fatto che
l'evangelista non solo è quello più radicato nella cultura ebraica, ma è
quello che pone in maggior evidenza le implicazioni sociali della parola di
Gesù. Di fronte alla morte di Gesù, la macchina da presa di Pasolini sceglie
il buio, una scelta anticinematografica che si pone come grande atto di fede: di
fronte alla morte lo sguardo deve abbassarsi e solo il cuore si farà custode
del tempo inedito e mai più rappresentabile.
Gli anni Settanta sono stati caratterizzati dal film che è divenuto il cinema
biblico per antonomasia: Gesù di Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli.
Per la verità era Ingmar Bergman che avrebbe dovuto girare per la RAI un film
sulla vita di Gesù. Ma il suo progetto venne accantonato perché giudicato
troppo rischioso come opera d'autore che certamente avrebbe fatto una lettura
singolare e personale della vicenda di Gesù. Così la mano passò a Zeffirelli
esperto di cinema spettacolare e capace sia di una rappresentazione in sintonia
con l'iconografia popolare sia di un coinvolgimento di molte star del cinema
internazionale. Il film ebbe due versioni: una lunga per la televisione e una
molto più breve per il cinema. Un film che sottovaluta e annulla alcuni momenti
centrali nella storia di Gesù, nasconde i veri e propri apax dei percorsi di
salvezza, non riesce a tradurre l'irruzione del kairos nel chronos.
Sempre in questi anni Settanta un film molto interessante è firmato dal regista
che ha imposto nel mondo il cinema italiano: Roberto Rossellini. Dopo aver
girato Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Germania anno
zero (1950) e altre opere importanti, due anni prima della sua morte firma Il
messia (1975). L'opera conclude la carriera del maestro ma è anche punto di
arrivo di un percorso contraddittorio, non privo di difficoltà e domande
inquiete.
La produzione non ha mai smesso di dare forma al racconto della vita di Gesù
visitando a volte l'andamento catechistico, altre volte scegliendo la modalità
trasgressiva. Alcuni titoli vanno certamente ricordati: Cercasi Gesù
(1982) di Luigi Comencini con Beppe Grillo come protagonista è un film che si
muove in bilico tra cronaca e invenzione; L'inchiesta (1986) di Damiano
Damiani, inquietante film girato dal punto di vista dell'estraneo alla vicenda
di Gesù, il romano Tauro che l'Imperatore manda in Palestina per accertare cosa
sia successo al corpo di Gesù che non viene più ritrovato e per svelare, se ci
fossero, dei trucchi. Ancora L'ultima tentazione di Cristo (1987) di
Martin Scorsese. Una cosa strana è che mentre il film è stato accolto tra
mille polemiche, l'uscita del romanzo di Kazantzakis, scrittore greco di fede
ortodossa, cui si ispira, non ha suscitato neppure una minima polemica. La
tentazione cui allude il titolo non è quella del potere o della carne, ma
quella di una vita "normale", con moglie, figli, un lavoro e gli
amici. Nonostante la forza provocatoria e la modalità a volte trasgressiva
della rappresentazione, alla fine tutto sarà una tentazione, l'ultima appunto,
prima di riaprire gli occhi ed essere sulla croce, luogo dove celebrare la
fedeltà al progetto del Padre. Jesus of Montreal (1989) di Denys Arcand,
I magi randagi (1996) di Sergio Citti (collaboratore di Pier Paolo
Pasolini) e I giardini dell'Eden (1997) di Alessandro D'Alatri, sono
alcuni tra gli ultimi titoli del cinema biblico.
(28-31 marzo 2000)